Saggi ed Analisi di Economia
4 ottobre 2009
PRINCIPÎ ESSENZIALI DELLA SCUOLA AUSTRIACA
1.1. La teoria austriaca dell’azione e la teoria neoclassica della decisione
Per i teorici Austriaci la scienza economica va concepita come una teoria dell’azione più che della decisione, cosa che costituisce una delle caratteristiche che maggiormente li separa e li differenzia dai loro colleghi Neoclassici. In effetti, il concetto di «azione umana» ingloba e supera il concetto di decisione individuale. In primo luogo, secondo la Scuola Austriaca, il concetto di azione include non soltanto l’ipotetico processo di decisione in un contesto di conoscenza “data” sui fini e sui mezzi, ma soprattutto «la percezione stessa del sistema di fini e mezzi» (K IRZNER, 1973: 45) in seno alla quale ha luogo quell’assegnazione economica che, con carattere esclusivo, si trova al centro dell’interesse dei Neoclassici. Inoltre, per gli Austriaci, la cosa più importante non consiste nel prendere una decisione, bensì nel fatto che tale decisione sia portata a termine attraverso un'azione umana nel cui processo (che può giungere o meno a compimento) si producono una serie di interazioni e di atti di coordinamento il cui studio costituisce l’oggetto della scienza economica. Pertanto l’economia, lungi dall’essere un insieme di teorie sulla scelta o sulla decisione, costituisce un corpus teorico che si occupa dei processi di interazione sociale, i quali potranno essere più o meno coordinati in base alla perspicacia mostrata nell’esercizio dell’azione imprenditoriale da parte degli attori implicati.
Gli Austriaci sono in particolar modo critici verso la ristretta concezione dell’economia che ha la sua origine in Lionel C. Robbins e nella sua celebre definizione come scienza che studia l’utilizzo di mezzi scarsi, suscettibili di usi alternativi, per la soddisfazione dei bisogni umani (ROBBINS, 1932). La concezione di Robbins, infatti, presuppone implicitamente una conoscenza data dei fini e dei mezzi, e il problema economico viene così ridotto ad un problema tecnico di mera assegnazione, massimizzazione od ottimizzazione, sottomesso a restrizioni che si suppongono parimenti note. Si può così affermare che la concezione dell’economia di Robbins corrisponde al nucleo del paradigma neoclassico e che può essere considerata completamente estranea alla metodologia della Scuola Austriaca così come oggi essa viene intesa.
In effetti, l’uomo robbinsiano è un automa o una semplice caricatura dell’essere umano che si limita a reagire in maniera passiva di fronte agli avvenimenti. Da questa concezione di Robbins bisogna distinguere la posizione di Mises, di Kirzner e degli altri economisti austriaci i quali ritengono che l’uomo, più che assegnare mezzi dati a fini altrettanto dati, in realtà cerca costantemente nuovi fini e mezzi, apprendendo dal passato ed usando la sua immaginazione per scoprire e creare il futuro.
Perciò, secondo gli Austriaci, l’economia rimane subordinata, od integrata, all’interno di una scienza molto più generale ed ampia: una teoria generale dell’azione umana (e non della decisione o della scelta umana). Secondo Hayek, per questa scienza generale dell’azione umana «se di un termine c’è proprio bisogno, il più appropriato sembra essere quello di scienze ‘praxeologiche’ […] ed ora chiaramente definito ed largamente impiegato da L. von Mises» (HAYEK, 1952a: 24).
1.2. Il ‘soggettivismo’ austriaco e l’’oggettivismo’ neoclassico
Un secondo aspetto di importanza capitale per gli Austriaci è rappresentato dal “soggettivismo”. Secondo la Scuola Austriaca, la concezione soggettivista risulta essenziale e consiste precisamente nel costruire la scienza economica partendo sempre dall’essere umano reale, considerato come attore creativo e protagonista di tutti i processi sociali. Perciò, secondo Mises, «l’economia non si occupa dei costi tangibili e di oggetti materiali; si occupa degli uomini e delle loro intenzioni e azioni. Beni, mezzi, ricchezza e tutte le altre nozioni non sono elementi della natura, sono elementi dell’intenzione e della condotta umana.
Colui che desidera considerarli non deve badare al mondo esterno; deve ricercare per essi l’intenzione degli uomini agenti» (MISES, 1949: 89). È facile comprendere, pertanto, che per gli esponenti della Scuola Austriaca –e molto diversamente dai Neoclassici– le restrizioni in economia non derivano da fenomeni oggettivi o da fattori materiali del mondo esterno (ad esempio, le riserve di petrolio), bensì dalla conoscenza umana di tipo imprenditoriale (la scoperta di un carburatore che riuscisse a duplicare l’efficienza dei motori a scoppio avrebbe lo stesso effetto economico del raddoppio del totale di riserve fisiche di petrolio).
Da ciò consegue che, secondo la Scuola Austriaca, la produzione non è un fatto fisico-naturale ed esterno ma, al contrario, un fenomeno intellettuale e spirituale (MISES, 1949: 136).
1.3. L’imprenditore austriaco e l’homo oeconomicus neoclassico
La funzione imprenditoriale, alla quale sarà dedicata gran parte del seguente capitolo, è la forza protagonista nella teoria economica austriaca, mentre, al contrario, essa brilla per la propria assenza nell’economia neoclassica. Ciò è da ascriversi al fatto che la funzione imprenditoriale è un fenomeno proprio di un mondo reale che si trova sempre in disequilibrio e pertanto non può giocare nessun ruolo nei modelli di equilibrio che assorbono l’attenzione degli autori neoclassici. Inoltre, i teorici neoclassici considerano la funzione imprenditoriale come un ulteriore fattore di produzione che può essere assegnato in funzione dei benefici e dei costi previsti; conseguentemente.
Per questo, essi non si rendono conto che, analizzando in tal modo l’imprenditore, cadono in una contraddizione logica insolubile: richiedere risorse imprenditoriali in funzione dei loro benefici e costi previsti implica infatti il credere che si disponga di un’informazione oggi (valore probabile dei loro benefici e costi futuri), vale a dire prima che la stessa sia stata creata dalla funzione imprenditoriale. In altre parole, come si vedrà più avanti, la principale funzione dell’imprenditore consiste nel creare e nello scoprire un’informazione che prima non esisteva e, fintanto che tale processo di creazione di informazione non giunge a termine, la stessa non esiste né può essere conosciuta, poiché, sulla base dei benefici e dei costi previsti, non è possibile (come invece ritengono i neoclassici) effettuare preventivamente nessuna attribuzione.
Oggi esiste una quasi unanimità fra gli economisti austriaci nel considerare un errore la credenza che il beneficio imprenditoriale derivi dalla semplice assunzione dei rischi. Il rischio, al contrario, dà semmai luogo ad un costo aggiuntivo del processo di produzione, che non ha niente a che vedere con il beneficio imprenditoriale puro il quale sorge quando un imprenditore scopre un’opportunità di guadagno che in un primo momento gli era sfuggita e, di conseguenza, si comporta in modo da approfittare della medesima (MISES, 1949: 777-79).
1.4. La figura dell’imprenditore negli Austriaci e nei Neoclassici
Non si è soliti tener conto della diversa importanza che il ruolo dell’errore assume nella Scuola Austriaca ed in quella Neoclassica. Secondo gli Austriaci, è possibile commettere errori imprenditoriali ‘puri’ sempre che, nel mercato, permanga un’opportunità di guadagno che non sia conosciuta dagli imprenditori. È precisamente l’esistenza di questo tipo di errore che dà luogo, quando la stessa si scopre e si elimina, al “beneficio imprenditoriale puro”. Al contrario secondo gli autori Neoclassici, non esistono mai errori genuini di tipo imprenditoriale dei quali ci si debba pentire a posteriori. Questo perché essi razionalizzano tutte le decisioni che sono state prese nel passato nei termini di una supposta analisi costo-beneficio effettuata nell’ambito di un’azione di massimizzazione matematica subordinata a restrizioni. Pertanto, si capisce che i benefici imprenditoriali puri non hanno ragion d’essere nel mondo neoclassico e che essi, quando si citano, vengono considerati semplicemente come il pagamento per i servizi di un fattore ulteriore di produzione, o come la rendita derivata dall’assunzione di un rischio.
1.5. La teoria dell’informazione
Gli imprenditori generano costantemente nuove informazioni che hanno un carattere essenzialmente soggettivo, pratico, disperso e difficilmente articolabile (HUERTA DE SOTO, 1992: 52-67 e 104-110). Pertanto, mentre la percezione soggettiva dell’informazione è un elemento essenziale della metodologia austriaca, essa risulta assente nell’economia neoclassica. Ciò è da ascrivere al fatto che la maggior parte degli economisti non si rende conto che quando Austriaci e Neoclassici utilizzano il termine informazione si riferiscono a realtà radicalmente diverse. Secondo i Neoclassici l’informazione è qualcosa di oggettivo che, come le merci, si compra e si vende nel mercato come risultato di una decisione massimizzatrice. Tale “informazione”, immagazzinabile in modi differenti, non è in alcun modo l’informazione nel senso soggettivo di cui parlano gli Austriaci: conoscenza pratica, rilevante, soggettivamente interpretata, conosciuta ed utilizzata dall’attore in un’azione concreta. Per questo motivo gli economisti austriaci criticano Joseph E. Stiglitz e gli altri teorici neoclassici per non essere stati capaci di integrare la propria teoria dell’informazione con quella funzione imprenditoriale che, per gli Austriaci, è sempre la sua fonte generatrice e primaria. Inoltre, per gli Austriaci, Stiglitz non comprende fino in fondo che l’informazione è sempre essenzialmente soggettiva e che i mercati che egli considera “imperfetti”, più che generare “inefficienze” (nel senso neoclassico), creano le condizioni perché sorgano opportunità potenziali di guadagno imprenditoriale, che tendono ad essere scoperte e sfruttate dagli imprenditori in quel processo di coordinamento imprenditoriale che essi imprimono continuamente al mercato (THOMSEN, 1992).
HUERTA DE SOTO - LA SCUOLA AUSTRIACA
| inviato da houseofMaedhros il 4/10/2009 alle 19:34 | |
24 aprile 2008
NOTE A MARGINE
2)
Non esistono dazi e tariffe buoni, sarebbe un ossimoro. Servono solo ad
aumentare i costi per il consumatore foraggiando produttori
inefficienti, nel migliore dei casi. Già 160 anni fa il grande Bastiat
avvertiva che chiudendo le frontiere alle merci le si aprivano agli
eserciti, e chiunque con un minimo di cognizione storica dovrebbe
ricordare le conseguenze dello Smoot-Harley act americano del 1931. Se
il consumatore vuole comprare schifezze, ebbene, suonerà strano, ma
ne ha ogni diritto. Ed i "costruttori sociali" sono pregati di
accomodarsi fuori dalle balle. Si può affrontare correttamente la
questione solo nei termini che ho indicato: illiceità di commerciare
con il crimine organizzato (in Stato), nei casi in cui è possibile
configurarlo come tale, sanzionamento della concorrenza sleale (ne è
conseguenza), e pretesa di informazione completa per il consumatore
riguardo ogni caratteristica del prodotto. Poi quello può fare ciò
che gli pare, non sono affari di nessun'altro.
Tremonti è un ottimo commercialista e un discreto
politico. Di economia non capisce granché, però. Confonde in
continuazione problemi politici per problemi economici, ed è
completamente all'oscuro del fatto che il primo problema economico sono
i politici.
Lo pregherei di lasciar perdere battaglie di
retroguardia, e di affondare invece i colpi dove davvero servono per
vincere. Implementi le azioni che ho consigliato nell'ultimo capoverso
del mio precedente post, e stia a vedere l'effetto che fa.
Già che si trova, potrebbe forzare l'Unione a
porre fine all'infame politica agricola che porta avanti (a proposito
di dazi e tariffe), abbassandoci così i prezzi finali per un sacco di
generi alimentari di prima necessità e portando un po' di prosperità ai
Paesi extra europei che più ne hanno bisogno, quelli più poveri. Così
magari ci risparmiamo pure qualche barcone di disperati loro abitanti.
24 aprile 2008
ECONOMIA, QUESTA SCONOSCIUTA
29 settembre 2007
ALTRO CHE PAUPERISMO, L'ECONOMIA DI MERCATO NASCE FRANCESCANA
di Guglielmo Piombini
Integrando l'economia austriaca misesiana, la filosofia
giusnaturalista tomista e lockiana e l'anarchismo politico degli individualisti
americani dell'Ottocento, Murray N. Rothbard (1926-1995) ha costruito un
grandioso sistema teorico, al quale deve la fama di massimo pensatore
libertarian del Novecento. Meno approfondito però è stato un altro aspetto del
suo pensiero, i cui semi erano già presenti fin dall'inizio della sua storia
intellettuale ma che è giunto a maturazione solo negli ultimi anni della sua
vita: l'apprezzamento per il Cristianesimo e in particolare per la cultura
cattolica. Rothbard, ebreo e agnostico, pur senza battezzarsi o convertirsi
arrivò al termine del suo percorso intellettuale a considerarsi "un ardente
sostenitore del Cristianesimo" e ad aderire ad una visione culturale latu sensu
cattolica.
Il Medio Evo, culla della moderna economia
Nel primo volume della sua monumentale storia del pensiero economico
(Economic Thought Before Adam Smith), uscita postuma nel 1995, Rothbard
rivaluta il Medioevo cattolico come un periodo ricco e creativo della storia
europea, soprattutto grazie al fatto che quell'ingombrante istituzione che è lo
Stato moderno non aveva ancora avuto modo di crescere e svilupparsi. Sulla base
di alcuni studi revisionisti di Joseph Schumpeter e di altri meno noti
economisti, Rothbard sviluppa una concezione della storia del pensiero economico
opposta a quella ortodossa. Nel tipico manuale di storia del pensiero economico,
infatti, i filosofi scolastici vengono trattati bruscamente come retrogradi
pensatori legati alla mentalità medievale; dopo aver menzionato i mercantilisti
e i fisiocrati, i "testi canonici" d'economia passano direttamente ai celebrati
"fondatori" della scienza economica, Adam Smith (1723-90) e David Ricardo
(1772-1823).
Per Rothbard invece la teoria e la pratica del libero mercato sono
germogliate, ben prima di Adam Smith, nel mondo cattolico e non in quello
protestante. Lungi dall'essere dei mistici che non capivano nulla d'economia,
per Rothbard i filosofi scolastici erano degli economisti di notevole valore,
che anticiparono alcune acquisizioni teoriche fondamentali come la concezione
soggettiva del valore, arrivando quasi a delineare il concetto di "utilità
marginale". Alberto Magno (1193-1280) e il suo grande allievo San Tommaso
d'Aquino (1225-1274), così come gli scolastici successivi, pensavano infatti che
il giusto prezzo di un bene non dipendesse da qualche sua qualità intrinseca, ma
fosse quello determinato dalla communis opinio o dalla commune
estimatione, cioè dal mercato.
L'ammirazione di Rothbard va in particolare a due francescani: al provenzale
Pietro Giovanni Olivi (1248-1298), il vero scopritore della teoria soggettiva
del valore; e a San Bernardino di Siena (1380-1444), il quale, oltre a fornire
una magistrale analisi delle virtù e della funzione dell'imprenditore, riportò
in auge, dopo circa due secoli, la teoria soggettiva del valore sviluppata da
Olivi. Rothbard elogia poi i tardoscolastici della Scuola di Salamanca del
sedicesimo secolo per la loro brillante difesa della proprietà privata, per le
acute analisi dei fenomeni di mercato e monetari, per la dura critica
dell'intervento del governo nell'economia.
L'allontanamento di Smith e Ricardo
Al contrario, Smith e Ricardo si allontanarono dalle acquisizioni teoriche
soggettiviste degli scolastici per adottare un concetto oggettivo del valore,
come la teoria del valore-lavoro, che portò la scienza economica su una strada
completamente sbagliata per più di un secolo, fino a quando Carl Menger e i
marginalisti austriaci di fine Ottocento la rimetteranno sulla giusta
carreggiata. L'erronea teoria inglese del valore-lavoro, secondo cui il valore
dei beni è determinato dal lavoro in essi incorporato, ha prodotto per Rothbard
numerose conseguenze negative, spianando la strada alle teorie socialiste di
Karl Marx e ad altre forme di interventismo statale. Non è un caso, nota
Rothbard, che nel diciottesimo e diciannovesimo secolo i più convinti fautori
del liberismo economico non fossero inglesi protestanti, ma francesi influenzati
dal cattolicesimo come Richard Cantillon, François Quesnay e i fisiocrati,
Etienne de Condillac, Jacques Turgot, Jean-Baptiste Say, Charles Comte, Charles
Dunoyer, Augustine Thierry, Frèdéric Bastiat, Gustave de Molinari.
L'alleanza tra protestanti e assolutisti
Purtroppo nel sedicesimo secolo la grande tradizione scolastica era entrata
in declino, a causa del contemporaneo attacco proveniente da due campi
differenti ma oggettivamente alleati: i riformatori protestanti da un lato e gli
apologeti dell'assolutismo dall'altro. Alla radice della religione cattolica,
spiega Rothbard, vi è infatti la convinzione che Dio possa essere percepito non
solo mediante la fede, ma attraverso tutte le facoltà dell'uomo, compresi i
sensi e la ragione. Il protestantesimo, specialmente quello calvinista, pone
invece Dio completamente fuori dalla portata delle facoltà umane. Per i
protestanti l'uomo è troppo corrotto perché possa fidarsi della sua ragione o
dei suoi sensi nella ricerca delle leggi naturali, e deve pertanto affidarsi
alla rivelazione e all'arbitraria volontà di Dio. In questo modo, dice Rothbard,
i protestanti non avevano a disposizione nessuno standard di norme etiche per
valutare e criticare l'azione dei governanti, e per questo motivo fornirono poca
difesa contro la marea montante dell'assolutismo statale moderno.
Se il protestantesimo aprì la strada allo Stato assoluto, i teorici
secolaristi del Cinque-Seicento si impegnarono esplicitamente in sua difesa, con
l'obiettivo di svincolare la vita politica da tutti quegli impacci morali che
impedivano all'azione dello Stato di svolgersi liberamente. Senza più la critica
giusnaturalista dello Stato, i nuovi teorici laici come Jean Bodin abbracciarono
la legge positiva dello Stato come l'unico criterio politico ammissibile.
Rothbard paragona quindi i protestanti antiscolastici che esaltarono la volontà
arbitraria di Dio come unico fondamento dell'etica ai teorici dell'assolutismo
che, allo stesso modo, elevarono l'arbitraria volontà del governante allo status
di incontestabile e assoluta "sovranità".
La critica dei gesuiti
Rothbard ricorda che furono i gesuiti i primi a notare questo stretto
collegamento tra i leader protestanti come Lutero e gli amorali teorici della
politica come Machiavelli: i due veri e propri padri fondatori del moderno Stato
secolarizzato. Entrambi, rifiutando per differenti ragioni la legge naturale
elaborata dalla scolastica cattolica come base morale della politica, si
sbarazzarono degli unici criteri sviluppati nei secoli per valutare e condannare
le azioni dei governanti. Non il papato, ma lo Stato rappresentava per Lutero lo
strumento di Dio, e pertanto i sudditi gli dovevano la più assoluta obbedienza.
Per Machiavelli invece occorreva abbandonare ogni tentativo di giudicare la
politica o il governo sul metro dell'etica cristiana, dato che quest'ultima
andava subordinata all'imperativo supremo del mantenimento e dell'espansione
dello Stato. Per questo motivo si è parlato di una "inconsapevole
collaborazione" di Machiavelli e Lutero per l'emancipazione dello Stato, che
darà modo a Thomas Hobbes di formulare un sistema politico che è insieme
perfettamente machiavellico e perfettamente protestante.
Il luogo comune del Calvinismo come “motore economico”
Rothbard ritiene inoltre che la famosa tesi di Max Weber, che attribuisce la
nascita del capitalismo al concetto calvinista di "chiamata", malgrado le sue
fruttuose intuizioni debba essere respinta. Il capitalismo moderno, infatti, non
inizia con la rivoluzione industriale del diciottesimo e diciannovesimo secolo,
ma nel Medioevo e in particolare nei comuni cattolici dell'Italia
centro-settentrionale, come dimostrato dal fatto che qui vennero inventate le
nuove tecniche finanziarie e commerciali quali la banca e l'impresa, la lettera
di cambio, la ragioneria, la partita doppia: novità che i teologi scolastici
cercarono via via di comprendere e giustificare.
Rothbard ricorda che la prima classica formula pro-capitalista, "In nome di
Dio e del profitto", si ritrova in un libro contabile fiorentino del 1253, e che
ancora nel Cinquecento la cattolica città di Anversa era il maggior centro
commerciale e finanziario.
Inoltre il più importante banchiere e finanziere dell'epoca era Jacob Fugger,
un buon cattolico della Germania del sud; egli lavorò per tutta la vita, rifiutò
di ritirarsi e annunciò che avrebbe continuato a far denaro fino a quando avesse
potuto: un primo esempio, osserva Rothbard, di weberiana "etica protestante" in
un solido cattolico! Per Rothbard, Weber avrebbe dovuto invertire i rapporti
causali: fu lo sviluppo del capitalismo che portò il calvinismo ad accomodarsi
ad esso, piuttosto che il contrario; ne è prova il fatto che solo il tardo
calvinismo, specificamente puritano, sviluppò la versione weberiana della
"vocazione" e dell'ascesi mondana.
Una conferma dagli studi recenti
Questa tesi di Rothbard sul ruolo avuto dalla scolastica medievale nella
preparazione dello spirito capitalistico ha trovato conferma negli studi recenti
di Michael Novak e di Rodney Stark. Ma va ricordato che anche il noto sociologo
tedesco Werner Sombart era giunto alla medesima conclusione. In un suo libro del
1913, Il borghese. Lo sviluppo e le fonti dello spirito capitalistico, sviluppò
queste illuminanti considerazioni:
"Qualunque sia la causa che ha condotto spontaneamente alla elaborazione
di un razionalismo economico, non si potrà porre in dubbio che esso abbia
trovato un potente appoggio nel dogma della Chiesa, che tendeva a realizzare nel
complesso dell'esistenza umana quanto il capitalismo doveva attuare nella vita
economica. San Tommaso sapeva che chi vive in castità e con moderazione soccombe
più difficilmente al peccato di sperperare, e si rivela anche in altri modi
migliore amministratore. Ma oltre alla prodigalità, la morale cristiana combatte
anche altri nemici della concezione borghese della vita. Soprattutto l'ozio, che
anche per lei è "il principio di ogni vizio". Accanto all'industriosità e alla
parsimonia gli scolastici insegnarono anche una terza virtù borghese: il decoro,
l'onestà o onorabilità. Io credo che dobbiamo all'opera educativa della Chiesa
una considerevole quantità di quell'elemento che, sotto la forma della solidità
commerciale, è parte tanto importante dello spirito capitalistico. Quando si
leggano con attenzione gli scritti degli scolastici, soprattutto quell'opera
meravigliosa del grandissimo Tommaso d'Aquino, che nella sua monumentalità fu
raggiunta soltanto dalle creazioni di Dante e di Michelangelo, si riceve
l'impressione che essi ebbero a cuore, più di questa educazione della borghesia
all'onorabilità, un'altra opera educativa: quella che tendeva a fare dei loro
contemporanei uomini retti, coraggiosi, intelligenti ed energici. Nulla
condannano con maggior veemenza della fiacchezza spirituale e morale. Un
concorso a premi che ponesse la domanda: "Come posso fare del signore impulsivo
e gaudente da una parte e dall'operaio ottuso e fiacco dall'altra, un
imprenditore capitalistico?" non avrebbe potuto trovare una risposta migliore di
quella già contenuta nella morale dei tomisti. Le opinioni qui espresse sono
nettamente opposte a quelle prevalenti sulla posizione della dottrina
ecclesiastica rispetto alle esigenze del sorgente capitalismo".
A dispetto di ogni concezione materialistica della storia, queste ricerche
sembrano dimostrare che le istituzioni capitalistiche (diritti di proprietà,
contratti, imprese, libertà individuale, governo limitato) che hanno fatto
grande la civiltà occidentale sono emerse spontaneamente dal basso quando sul
piano della cultura si sono diffusi e affermati determinati precetti morali,
come la responsabilità individuale, lo sforzo e l'impegno personale,
l'affidabilità, la fedeltà, l'onestà, la prudenza, la lungimiranza,
l'autodisciplina morale: in sintesi, i valori della tradizione morale
giudaico-cristiana elogiati da Murray N. Rothbard.
| inviato da houseofMaedhros il 29/9/2007 alle 15:59 | |
18 gennaio 2007
Le delizie del denaro concettuale
La Banca Centrale del Giappone (BOJ) ha per l'ennesima volta soprasseduto all'innalzamento del tasso ufficiale di sconto, lasciandolo inchiodato ad uno stupefacente 0,25%. Hanno però fatto la voce grossa (la dignità non è requisito necessario per burocrati e politici), ricordando che potrebbero aumentarlo nella prossima riunione di febbraio. Magari portarlo addirittura ad un 0,4%.
Il Giappone passerà alla Storia per essere stato il primo (e finora unico) Paese a stabilire un prezzo negativo per la sua cartamoneta. In altre parole, c'è stato un periodo qualche anno fa in cui il debitore veniva pagato per prendere denaro in prestito. Negli anni '70 vi fu la Svizzera che arrivò a riconoscere un interesse negativo a chi apriva depositi in franchi svizzeri, fuggendo da un dollaro che sembrava inarrestabile nella sua caduta a seguito della dichiarazione d'insolvenza firmata da Nixon nel 1971. Ma non credo che gli agenti domestici allora venissero pagati per indebitarsi.
Questo contegno delle autorità politico-monetarie giapponesi mi rafforza in una mia convinzione, espressa già un paio d'anni fa. L'altissimo prezzo dei bond giapponesi, idem est il bassissimo rendimento che offrono, è stata ed è l'unica cosa che mantiene solventi le banche di quel Paese. A seguito dello scoppio della bolla nipponica all'inizio degli anni '90, in Giappone si è scatenato un vero e proprio cataclisma finanziario. Ancora oggi, dopo 17 anni, l'azionario giapponese vale il 60% in meno (in termini nominali, figuratevi quelli reali), e la stessa cosa può dirsi per gli immobili.
Per rispondere a ciò, il governo ed i banchieri centrali hanno letteralmente alluvionato il sistema di denaro. Mentre i cretini parlavano di deflazione giapponese, e lo fanno tuttora. Contrariamente a quanto il senso comune ritiene, l'inflazione monetaria ha come effetto primario e necessario quello di abbassare i rendimenti delle obbligazioni, soprattutto di quelle governative a più lunga scadenza. La creazione di denaro è così enorme, e così variegata nei soggetti abilitati a ciò, che non vi è altro posto dove possa essere parcheggiato, sia in senso quantitativo (disponibilità di offerta), sia in senso qualitativo (assenza di rischio). E' per questo che ritenevo e ritengo che stavolta l'oro compirà la sua cavalcata senza necessità di un contestuale mercato orso sui bond, come contestavo, sempre un paio d'anni fa, a Jim Sinclair. Il decennio 1970-80 che vide invece i rendimenti dei bond schizzare alle stelle non può far testo, in quanto quelli erano i primi anni in cui il mondo faceva i conti con un sistema monetario non convertibile globalmente, ed erano fortissimi i dubbi che la cosa potesse avere successo. Senza contare che allora la massa monetaria era una frazione infima di quella attuale.
Questo avviene a maggior ragione quando gli altri asset sono considerati assolutamente non desiderabili, come è avvenuto in Giappone negli ultimi 17 anni per le azioni e gli immobili. E poiché il denaro moderno viene al mondo esclusivamente come debito, l'alluvione operata dalle autorità nipponiche ha avuto come conseguenza che il debito pubblico giapponese è oggi pari a circa il 160% del loro PIL. Una mostruosità quasi inconcepibile, tenuto conto che il PIL giapponese non è robetta da poco. Un debito che al contrario di quello americano è quasi tutto in mani domestiche, ed il cui altissimo prezzo è la cosa che mantiene le riserve delle banche giapponesi ai livelli obbligatori richiesti, ovviando alla carneficina intervenuta per i prezzi degli altri assets finanziari ed immobiliari (e relativi crediti incagliati o andati in malora). E' questo il motivo per cui la BOJ oltre la voce grossa non può andare; almeno fino a quando non riuscirà ad innescare una nuova ascesa dei prezzi degli altri assets.
Ovviamente, in presenza di moneta convertibile una cosa del genere non sarebbe assolutamente possibile (vedi gli States nel 1929). Ma non è possibile neanche in presenza del regime monetario odierno in Paesi che siano diversi dai Big Boys (oggi: dollaro, sterlina, euro ed yen). La nudità dell'Imperatore viene salvaguardata, ma i vari Proconsoli (argentini, messicani, russi, asiatici del sud-est) possono tranquillamente andare in malora, senza che il sistema si scuota più di tanto. Nel caso giapponese, un sostegno in più è stato dato dal cronico e gigantesco surplus commerciale di cui il Paese ha continuato a godere durante questi anni di purgatorio, che ha impedito un deprezzamento troppo accentuato dello yen.
Continua così ad operare a pieno regime la più ciclopica macchina fornitrice di liquidità che sia mai stata vista all'opera, maggiore anche della FED di Greenspan del 2001-2004. Indebitatevi in yen, a prezzi ridicoli, con preoccupazioni di cambio non elevate (e comunque gestibili), ed impiegate i proventi comprando roba che rende di più. E sorridete, siete nel Paese dei Balocchi.
L'unico problema è che di roba che rende di più comincia ad essercene pochina in giro. Ma potete sempre riciclare vecchie idee, che nel frattempo s'erano ridimensionate. Tipo petrolio e materie prime, e l'universo correlato.
Sarebbe opportuno quindi che quelli che stanno spingendo il petrolio su nuovi minimi non la facciano tanto lunga. Si coprano!
| inviato da il 18/1/2007 alle 18:41 | |
23 novembre 2006
Così è se vi pare
Grazie all'opera meritoria di Gibaryan, possiamo adesso aggiornare un paio di grafici estremamente illuminanti per capire cosa muova il sistema economico e finanziario contemporaneo.
Si tratta dei grafici dell'indice Dow Jones e dello Standard & Poor's 500, aggiustati per la variazione di M2, e cioè depurati dall'inflazione monetaria, dal 1959 ad oggi.
Li avevo pubblicati in un mio pezzo di gennaio del 2005.
Qui ci sono gli aggiornamenti.
Non ci sono grosse novità, del resto si tratta di grafici di lunghissimo periodo, ma potete notare che mentre il Dow continua a languire su valori "reali" inferiori a quelli del 1959, l'S&P500 con l'ultimo scatto di reni è riuscito a portarsi sopra i valori che lo caratterizzavano quasi cinquant'anni fa.
Insomma, i valori nominali che leggete sui vostri monitor sono fatti di pura fuffa.
Certo, la variazione dell'indice dei prezzi al consumo è di molto inferiore a quella della grandezza monetaria M2. Ma questo avviene semplicemente perché il CPI lo calcola il governo, che si esibisce dunque in quello che sa far meglio: menzogna e truffa! La variazione di quella grandezza monetaria è secondo me quello che più si avvicina all'aumento del costo della vita nel dato periodo, insomma è il dato più affidabile per calcolare l'inflazione, nel suo significato proprio.
Ieri il Comitato Olimpico britannico ha reso noto che i costi per organizzare le Olimpiadi del 2012 a Londra sono aumentati del 38% rispetto alle stime iniziali. L'organizzazione è stata affidata agli inglesi a luglio dell'anno scorso, e nel periodo il CPI è aumentato di meno del 4%. Com'è 'sto fatto? E meno male che l'organizzazione di un'Olimpiade non prevede il nutrirsi, il riscaldarsi, il curarsi e mandare i figli a scuola. Cosa che ognuno di noi deve invece fare (tranne i Ridolini-boys, che notoriamente non mangiano, né consumano energia).
Il significato di tutto ciò mi pare comprensibile perfino da un bambino mediamente dotato. Ma la quasi totalità degli analisti e degli studiosi economici continua a perder tempo prendendo in considerazione i dati economici che gli propinano i vari governi o paragoverni, e su questi basano discussioni, studi e quant'altro, tutta roba che finisce per non valere la carta su cui viene stampata. E tutto il mondo gira intorno a quei dati, che non significano un cazzo, soprattutto per quanto riguardo l'inflazione.
Giusto per fare un esempio: l'ultimo ciclo di rialzi dei tassi di sconto da parte della Federal Reserve viene comunemente indicato col termine "stretta monetaria". Bene, qui potete apprezzare quanto è stretta: l'M3 negli States sta tornando a crescere a ritmi del 10% anno su anno.
Paradossalmente essa è diminuita piuttosto durante il ciclo di ribassi dei tassi, iniziato nel 2001. Ma il paradosso è solo apparente. Ormai il banchiere centrale è solo uno dei soggetti che possono creare denaro dal nulla, anche se rimane il più importante. La miriade di istituzioni finanziarie e parafinanziarie ormai è responsabile della maggior parte dell'inflazione che si registra nel mondo, grazie alle magie che assicura la riserva frazionaria e l'innovazione nel campo degli strumenti finanziari. Ed è chiaro che tali magie appaiano al meglio in tempi di rialzi (nominali) dei prezzi degli assets finanziari.
Assolviamo dunque il banchiere centrale? Neanche per sogno! Alla base della piramide rovesciata con cui possiamo figurare il sistema finanziario contemporaneo c'è comunque lui. Il responsabile ultimo rimane lui! Perché quella miriade di attori finanziari possono sbizzarrirsi solo se lui lo vuole. E lui lo vuole, non si può concludere altrimenti.
E così sia!
(senza dimenticare però che il ciclo economico è una maledizione a cui gli alchimisti moderni non riusciranno mai a sfuggire)
| inviato da il 23/11/2006 alle 16:11 | |
7 settembre 2006
Le lezioni di von Hayek
Dal blog di Giovanni Boggero, riprendo e rilancio 6 piccole perle elaborate sugli insegnamenti di quel grande economista e filosofo in tema di liberalismo.
1) Alla scoperta del liberalismo
2) Il concetto liberale di libertà
3) Il diritto nella concezione liberale
4) La giustizia nel sistema liberale
5) Libertà, uguaglianza e democrazia
6) Funzioni del governo liberale
Sono solo accenni, ma bastano a fare strame di ogni bestemmiatore che considera l'individuo un mezzo, una pedina da muovere e condizionare in relazione ai fini escogitati (il più delle volte nei meandri più oscuri di cervelli ottenebrati da una mistura di sadismo ed imbecillità) dal "presuntuoso fatale" di turno.
| inviato da il 7/9/2006 alle 9:11 | |
18 luglio 2006
Ancora sul sistema monetario contemporaneo
PROBLEMA (ovvero cosa che suscita quella che gli antichi greci chiamavano "meraviglia")
Sistema monetario fiat contemporaneo. Si distingue dagli esperimenti simili tentati in passato, in quanto ha caratteristiche di globalità, non limitato cioè a determinati ambiti spaziali. Ne consegue l'avvenuta scomparsa del termine di paragone, la Moneta o carta comunque in essa redimibile. La cartamoneta di stato oggi si paragona solo a sé stessa, essendo padrona assoluta dei sistemi di pagamento. Possono tali caratteristiche esimerlo dal seguire la sorte dei suoi precedenti, e cioè annichilimento del valore di ciò che spaccia per denaro, con conseguente suo rifiuto da parte degli agenti economici, a causa della fatale inflazione e del conseguente deprezzamento che non può non caratterizzarlo nei confronti del costo della sopravvivenza?
IPOTESI (ovvero tentativo di soluzione maedhrosiano)
Il fatto che la Moneta sia stata completamente estromessa dalla sua funzione principe (il medium of exchange), determina un cambiamento nella natura di quello che oggi viene comunemente definito denaro. Esso cessa di essere un bene, qualcosa che veniva prodotto tramite un processo economico, con i suoi costi, la sua fatica e le sue limitazioni insuperabili (si poteva solo estrarlo, non crearlo); e si trasforma sostanzialmente in un concetto, di natura numerica, e quindi privo di qualsiasi limitazione che non sia la mera volontà umana (rectius: di alcuni umani). Ne consegue la scomparsa del pagamento in pieno, la Moneta. La scomparsa cioè della base cash, impermeabile ai voleri umani, che fungeva da magnete spietato ogni volta che l'esuberanza creditizia partiva insostenibilmente per la tangente, richiamando all'ordine ed eliminando gli incontinenti. In altre parole non esiste più il denaro, almeno nel senso classico, storico, del termine. Oggi esiste solo il debito/credito; non è ravvisabile alcuna distinzione sostanziale tra il cash odierno ed il credito/debito. Il sovrano odierno, va aggiunto, è a capo del più formidabile apparato di controllo e manipolazione che mai la storia gli abbia concesso, ed è molto più consapevole nell'arte di marginalizzare il dissenso. Queste caratteristiche rendono impossibile che il sistema monetario irredimibile contemporaneo possa trovare la sua fine in re ipsa (e cioè, a causa dell'espansione abnorme degli aggregati monetari-creditizi che necessariamente caratterizzano i sistemi irredimibili, e nella conseguente svalutazione del denaro politico, che ne determina il rifiuto da parte degli attori economici come mezzo di pagamento). Ovviamente, questo non significa la scomparsa del ciclo economico.
CONTROLLO (ovvero dei tentativi di falsificazione dell'ipotesi o teoria)
Andare a cercare riscontri empirici che possano falsificare la teoria appena formulata (è ciò che mi distingue dall'ameba, oltre al fatto di essere molto più avvenente) non è cosa facile. L'economia è una scienza empirica particolare, nel senso che non è possibile ricreare l'ambiente in cui si esplica in un laboratorio. Non puoi condurre esperimenti in senso tecnico, insomma. Tutto quello che puoi fare, allora, è andare a vedere se storicamente è stato dato un periodo in cui le caratteristiche odierne fossero presenti, e cosa questo ha determinato. Orbene, storicamente prima del 1971 non s'è mai riscontrato un sistema monetario che presentasse le caratteristiche di quello odierno. Non possono essere condotti paragoni con i tentativi esperiti in Francia con gli "assignat", o in Germania con i marchi weimariani, o nell'impero mongolo del XIV secolo, in quanto erano tutti esperimenti ben delimitati spazialmente. Il paragone con il 1929 ha ancora minor senso, perché allora semplicemente non operava un sistema monetario irredimibile. Pertanto, per sommi capi le condizioni che esistono oggi (sistema monetario con le caratteristiche sopra descritte, ed un certo grado di preoccupazione per la sua tenuta) possono essere riscontrate solo nel decennio 1971-1981, e forse ancor di più nella seconda metà degli anni '80 (nel decennio precedente il sistema era agli inizi, non v'era un coordinamento vero tra i vari sovrani, erano anzi riscontrabili resistenze non da poco). Comunque, in entrambi i casi il sistema è sopravvissuto (la seconda volta con una "nonchalance" molto maggiore). E il tentativo di falsificazione non va a buon fine.
POSTILLA L'ipotesi è naturalmente falsificabile anche sotto il profilo logico-deduttivo, non solo quello empirico. Anzi, quella dovrebbe essere considerata la via maestra in campo economico. Ma cercare di confutare la teoria proposta, adducendone come vizio logico il fatto che essa sostenga che il sistema andrà avanti perché finora è andata così, è una sciocchezza inaudita, ai limiti della diffamazione. Come si vede, il paragone storico è cosa assolutamente estranea alla teoria, consistendo in un mero tentativo (non riuscito) di falsificarla.
| inviato da il 18/7/2006 alle 12:51 | |
22 maggio 2006
Pensieri sparsi sui sistemi monetari, espansione creditizia e sue conseguenze
(l'intera discussione è consultabile qui)
Da quando nel 1971 Nixon diede il via al primo regime monetario globale irredimibile, togliendo la foglia di fico che a Bretton Woods vi avevano piazzato sopra, il mondo ha già conosciuto dei crack ups. Questo è il terzo.
Finora nessuno ha portato al boom!
Certo, l’entità degli squilibri attuali non è comparabile a quelli passati, oggi le grandezze in questione sono molto maggiori. Ma sul fatto che la cosa sia rilevante in un regime fiat globale, molto più scafato rispetto a 20-30 anni fa tra l'altro, ho i miei dubbi.
Lo scrivevo in un mio pezzo di 2 anni fa, e lo ripeto adesso: in un contesto siffatto, è un errore ragionare di cartamoneta e debiti come se si trattasse di qualcosa cui siano applicabili leggi fisiche. Non esiste un limite oltre il quale non si può andare.
Il dollaro ha perso il 95% del suo valore in meno di un secolo, ma può perdere un altro 50%, e poi ancora ed ancora, senza mai arrivare a zero.
Quello che oggi viene chiamato denaro è solo un concetto, e lo è in tutto il mondo. Non è legato a nulla di fisico, e non lo è in nessuna parte del pianeta. Le valute si paragonano l'un l'altra, contrariamente al passato, quando esperimenti di cartamoneta non redimibile erano racchiusi in un dato spazio, e al di fuori di quello spazio erano costretti a confrontarsi con la Moneta vera. E la cosa aveva allora l'effetto dello specchiarsi negli occhi della Gorgone.
Oggi non è così. Anche la denuncia che ne fa l'oro non è necessariamente foriera di un crollo del sistema, perché l'oro è stato escluso dalla circolazione monetaria. E pur conservando la sua natura di Moneta, non ha alcuna rilevanza nel sistema dei pagamenti. Il sistema può continuare tranquillamente qualunque prezzo reclami l'oro, o qualsiasi altra cosa.
La logica economica comanderebbe il boom dopo crack ups di questa portata, ma il problema è che quella logica pensa di stare ancora parlando di denaro, quello cui era abituata a considerare. Ma oggi siamo di fronte ad un'altra cosa, completamente diversa.
Il boom avviene solo se salta la convenzione ad opera di qualche componente del sistema, che è UNICO e GLOBALE. Ed al contrario di qualsiasi altro fissatore di prezzi, ha la padronanza esclusiva ed assoluta della cosa di cui ordina il prezzo, della cosa che tutti credono ancora essere denaro.
Ma nessuno dei componenti del sistema lo farà, perchè nessuno di loro, neanche quelli che ricavano i minori vantaggi, desiderano la continenza e il ridimensionamento che la Moneta imporrebbe loro. Sbraitano e scalciano ogni tanto, ma solo per sistemarsi meglio di posto all'interno del sistema, che ogni tanto provvede a fagocitare qualche sua appendice periferica, ma continua implacabile, forte dell'assoluta ignoranza in materia del 98% dei figuranti che operano al suo interno e delle armi sempre più potenti che possiede in ordine all'induzione dei comportamenti e della percezione delle persone.
Un sistema siffatto non salta per cause endogene! O almeno, questo è il mio parere.
Diciamo subito che non si vuol sostenere che il sistema possa andare avanti all'infinito. Di infinito esiste solo la stupidità umana. Questo sistema è una creazione umana, e come ogni creazione umana è destinato a finire e ad essere oblìato. Io ritengo semplicemente che la sua caduta non sarà generata da qualcosa di intrinseco al sistema, tipo l'espansione senza fine di quello che chiamano denaro, e quindi dei debiti.
Il richiamo alla natura c'entra come l'aglio prima di un appuntamento galante. Qua non si tratta di signoraggio, e di valore legale imposto in misura non corrispondente a quello intrinseco. Si tratta del valore intrinseco che non c'è più, in nessuna parte del mondo. Non c'è più il denaro, insomma. C'è un concetto e dei numeri, che con la natura e le sue leggi non hanno nulla da spartire. Sia l'uno che gli altri non hanno limiti! E pertanto, è quasi imbarazzante che si continui a ragionare economicamente come se quello che usiamo per i pagamenti fosse ancora un bene, un qualcosa che la natura dispensava.
Altrettanto incomprensibile è questa attesa dell'iperinflazione, o il benvenuto alla stessa, che sarebbe oggi finalmente arrivata. Occorre svegliarsi! L'iperinflazione è qui fin dalla dichiarazione di fallimento di Nixon. Andate a controllare quanto costava un pezzo di pane o un chilo di carne nel 1971, e confrontatelo con i prezzi di oggi. Oppure, controllate l’entità dei vari aggregati monetari e creditizi di allora con quella odierna. Essa semplicemente non è percepita come tale. E la ragione principale è quella che ho esposto in precedenza: manca il termine di paragone! Esso (la Moneta) è bandito, posto al di fuori del sistema dei pagamenti. Conserva la sua nobiltà, ma è irrilevante nella sua funzione storica, perchè dappertutto è stato reciso il suo legame con i mezzi di pagamento. E dappertutto la cosa è accettata. Vi sono poi anche altre cause secondarie, come l'aumento dei beni prodotti e la fortissima presa che il governare moderno ha sulla percezione ed i comportamenti delle persone. E come il bollire a fuoco lento: non lo si percepisce, ma comunque finisci bollito (impoverito). A meno che tu non conosca la faccenda.
Anche il richiamo all'esaurimento delle risorse naturali è completamente fuori luogo. Il problema permarrebbe in ogni caso, anche se le pagassimo in Moneta. Se finiscono, finiscono; non è un problema del sistema dei pagamenti.
In quello che dico non c'è alcun giudizio di valore. Sono solo riflessioni sulla natura del sistema monetario odierno, da cui cerco di ricavare delle conseguenze logiche. Non elevo nulla a postulato. Ma non si può pretendere di smontare un ragionamento logico con la semplice osservazione che non posso escludere che siano sbagliate le conclusioni che ricavo.
L’obiezione principe ai miei assunti è il richiamo alla natura. E non ha senso perché il denaro di oggi non è più un bene naturale. Ho il piacere di informare inoltre che anche i debiti non sono più qualcosa di reale, come non lo è più il denaro. Nel sistema attuale, c'è un'equivalenza quasi perfetta tra le due cose. E questa è peraltro l'obiezione mortale per chiunque abbia cianciato di deflazione in questi anni, soprattutto per quelli che dalla deflazione ricavavano addirittura la conseguenza di un rafforzamento della valuta in questione. In ogni caso, se si può estinguere il debito con qualcosa che non è reale, nel senso che non è prodotto tramite un processo economico e non è legato ad alcunché di tangibile (l'attuale cd. denaro), come fa il debito ad essere qualcosa di reale?
Il dollaro ha perso un'altro 10% del suo valore nell'ultimo mese, dopo averne perso il 95 da quando la Fed cominciò a difenderne il valore. Ci sono serie probabilità che ne perda un altro 25-30% in un futuro non lontano. Non arriverà mai a zero. Quando una valuta si avvicina pericolosamente a quella soglia, basta fare come i turchi: cancellare sei zeri, ed assistere ad una corsa all'acquisto dei propri bond.
Dopo quel massacro, 95% e passa di valore perso, mentre un sacco di gente continua imperterrita ad aspettare l'iperinflazione che bussi alla porta, i dollari continuano ad essere accettati, e con molto piacere. Vengono semplicemente valutati di meno.
Oggi c'è una certa apprensione perché pare che il declino stia conoscendo delle accelerazioni preoccupanti. Ebbene, è già successo, ed in maniera ancora più grave, negli anni '70 e nella metà degli '80, ma siamo sempre qui. Il sistema va in fibrillazione, gli attori principali strepitano, si azzuffano, complottano, qualcuno esce di scena, altri entrano, altri ancora si cambiano di posto, qualche appendice viene sacrificata e sostituita con una nuova di zecca, e poi tutti pronti per un nuovo giro. Con l'oro a 2.000 $? Perché no? Tanto per trovare quei 2.000 $ non debbono fare altro che schioccare le dita.
Quello che intendo quando dico del bisogno che salti la convenzione affinché il sistema vada a ramengo è che la gente cominci a rifiutare la moneta legale.
Solo che io escludo che le persone siano in grado di farlo. A prescindere da una pressoché completa mancanza di consapevolezza, tranne che in alcune èlites, e di volontà, il "legal tender" è un obbligo che vige dappertutto.
Posso immaginare solo uno Stato che denunci quella convenzione, ammesso che abbia la forza per implementarla. Ma non posso immaginare dei governanti che rinuncino scientemente ai privilegi che comporta il loro monopolio sulla produzione e la vendita di quello che viene ancora chiamato denaro.
Di solito, denunce e strepiti vari hanno avuto l'unico scopo di rinegoziare rapporti di forza, ma sempre all'interno del sistema.
E’ d’uopo chiarire che il paradosso di Zenone è portato solo a titolo di esempio, ed il fatto che la somma di quegli infiniti intervalli sia finita (tra l’altro è finita solo se si assume una velocità costante della cosa che li attraversa) non significa nulla in ordine al filo logico che lega le mie riflessioni. Qual'è il numero delle somme che porta a quel risultato finito? Dal basso della mia ignoranza matematica, azzardo che contenga tante di quelle cifre da risultare quasi impossibile da pronunciare, a meno di non usare l'elevazione a potenza. E quante sono le probabilità che si arrivi a quella fine, senza che intervenga prima un fattore esogeno a terminare il sistema? Credo che si approssimino allo zero.
Questo per quanto riguarda l'ambito puramente teorico-speculativo. Venendo a quello economico, entra in scena il fattore umano. L'economia è scienza delle azioni che gli umani compiono per soddisfare i loro bisogni, veri o presunti, in un ambiente con risorse qualificate dalla scarsità. E gli umani hanno comportamenti la cui logica non è semplice come quella matematica. Questo è il motivo per cui l'economia non è arte dei matematici. Il fattore umano non ha alcuna difficoltà nel mandare a peripatetiche le risultanze del calcolo infinitesimale. E lo può fare in un sacco di modi: può imitare i turchi (ed un sacco di altri), può adoperare foglie di fico tipo un nuovo agganciamento alla Moneta (ve ne sono di tipi che permetterebbero comunque ai padroni del vapore un grande lassismo), può stabilire cambi fissi tra i vari coriandoli, e si può continuare.
Oppure può semplicemente continuare ad assistere alla svalutazione di quello che oggi chiamano denaro, consapevole che essa può andare avanti indefinitamente (che non vuol dire all'infinito) in mancanza della cartina di tornasole (la Moneta) all'interno del sistema dei pagamenti.
Senza preoccuparsi che arrivi la fine delle infinite suddivisioni possibili del valore di qualcosa espresso in numeri. E' probabile che arrivi prima il giorno del giudizio!
Certo, se alla parola "boom" si dà il significato di semplice fibrillazione o crisi del sistema, allora siamo d'accordo: un sistema monetario come quello odierno non può non soffrirne in continuazione, con gradazioni ed ambiti diversi.
Ma non è in questo senso che essa viene usata classicamente.. Tradizionalmente essa indica la fine, data come inevitabile, di ogni sistema monetario non redimibile, e cioè la distruzione della cartamoneta redimibile solo in sé stessa che lo fonda. Principalmente tale conclusione si basa sui precedenti di sistemi siffatti, ma ha il difetto di non considerare le due novità che riguardano il sistema attuale, che sono legate fra loro, e che ho indicato: 1) non esistono confini spaziali al sistema fiat contemporaneo, e 2) la Moneta non ha più posto tra i mezzi di pagamento, cosa che impedisce il confronto tra le due forme di media exchange; confronto che storicamente ha sempre decretato la fine del coriandolo di turno, e che analiticamente non potrebbe avere una conclusione diversa.
Riguardo la fine del mondo, non intendo certo sancirne l'impossibilità per cause endogene. Io parlo del sistema monetario. E se il mondo finisce, la cosa si pone nei confronti di quel sistema come fattore esogeno.
(anche se bisogna ammettere che essa potrebbe benissimo essere correlata al sistema monetario, ma con le correlazioni bisogna necessariamente andarci cauti; in fondo, si potrebbe correlare tutto al Big Bang, o a qualunque cosa sia successa ai primordi)
Qualsiasi paragone con il 1929, infine, paragone che viene spesso portato come paradigma delle conseguenze di un’espansione creditizia eccessiva, è privo di senso. Ed il motivo è molto semplice: a quel tempo, il dollaro era una certa quantità d'oro (1/20 di oncia, portato poi ad 1/35 da Roosevelt dopo la rapina).
Non c'era un sistema monetario fiat in poche parole.
Gli effetti dell'inflazione sulla società e le sue regole sono risaputi; c'era un magnifico pezzo di Cantor che li illustrava magistralmente. Lo scontro con la realtà denuda il nulla che sostiene il denaro politico, e facendosi beffe di ogni sforzo, non importa quanto grande, di chi lo impone, lo condanna ad una svalutazione senza soluzione di continuità verso il costo della sopravvivenza.
Ma sul fatto che questo possa portare ad una ribellione verso quell'imposizione, ed al ripudio del denaro irredimibile, da parte delle persone (è questo il significato classico del "boom" dopo il "crack up"), che la convenzione salti perché rifiutata da quelli cui era stata imposta (unico fattore configurabile come endogeno), io ho serissimi dubbi.
C'è una grandissima differenza tra l’oggi e quel tempo: nel 1929 la Moneta persisteva e concorreva nel sistema dei pagamenti. Prima direttamente, poi indirettamente quando Roosevelt la tolse dalla circolazione, mantenendone però l'aggancio. Già anche solo con l'aggancio, le risultanze mutarono drasticamente. Fino alla rapina, la Moneta richiamò all'ordine prezzi ed eccessi creditizi, e coloro che li avevano commessi. Dopo la confisca, anche l'aggancio non potè impedire l'inizio dell'aumento senza sosta del costo della sopravvivenza in termini di quei dollari che avevano la pretesa di sostituire la Moneta con pari dignità, e l'espansione creditizia da allora non ha più avuto richiami all'ordine degni di nota.
Nel 1971 ci si è liberati anche dell'ultima foglia di fico, e solo da allora vige il sistema monetario odierno: un sistema di cartamoneta irredimibile, autoreferenziale, e senza limiti spaziali sul pianeta. La Moneta è completamente bandita, non ha alcuna rilevanza nel sistema dei pagamenti, neppure indirettamente.
Del resto, il meccanismo di creazione di eccessi creditizi è sempre lo stesso, più o meno. Quello che cambia è che una volta che la fiducia venga scossa, se la Moneta è comunque nel sistema, l'espansione creditizia rotola su sé stessa, poiché il cash (il pagamento in pieno) in tal caso rappresenta una base non inflazionabile.
Una volta bandita la Moneta dal sistema, ed eliminato addirittura ogni riferimento ad essa nei mezzi di pagamento, il pagamento in pieno non esiste più. L'espansione creditizia, che ha ormai differenze solo sfumate con quello che si pretende ancora chiamare cash, è sorda a qualsiasi richiamo, perché sa che la base adesso è inflazionabile tramite semplici atti di volontà umana. E sa che quella volontà ci sarà sempre! Ed infatti, da allora non ha più conosciuto soste, con accelerazione esponenziale dopo che l'ultimo freno è stato rottamato nel 1971. Un freno che per quanto malandato fosse esercitava pur sempre la sua funzione, e sia pure imperfetta quella è sempre una funzione oltremodo fastidiosa per un governante.
Tutto ciò rappresenta una novità assoluta, un qualcosa che non s'è mai verificato prima, e questo per me è abbastanza per imporre una revisione ai canoni dell'analisi economica classica, almeno per quanto riguarda la cosa di cui si discute.
| inviato da il 22/5/2006 alle 9:26 | |
12 maggio 2006
Autocelebrazioni
Economic goods, and Money as a good
| inviato da il 12/5/2006 alle 19:48 | |
14 aprile 2006
I BENI ECONOMICI E IL BENE MONETA Gennaio 2006 di Castrese Tipaldi |
Ultimamente, nel forum del sito www.usemlab.com ci si è impegnati in una vivace e piacevole discussione per stabilire se l’investimento in oro fosse da considerarsi a rigore come investimento a tutti gli effetti o meno. Sono intervenuto nel dibattito, sostenendo che dovesse rispondersi al dilemma in senso affermativo. La mia tesi è stata criticata, con riferimento ad una serie di passaggi dell’opera di Rothbard, ed in ultima analisi col richiamo alla nota definizione della moneta come bene sui generis, neutro ed improduttivo. I critici hanno in particolare posto l’accento sul fatto che la risposta affermativa al quesito dovesse implicare l’accettazione delle tesi formulate da Barnett e Block in un recente saggio, consultabile on line a quest’indirizzo: http://www.gmu.edu/rae/archives/VOL18_2_2005/4_Barnett.pdf
Le tesi di Barnett e Block ("Ogni azione è consumo o produzione, e lo scambio non è altro che una forma di produzione. Di conseguenza, tutti i beni o sono beni di consumo o sono beni di produzione; non c’è una terza possibilità. E tra questi due, il denaro è un bene di produzione, non un bene di consumo”) sono invece da respingere, senza che però la cosa danneggi in alcun modo la fondatezza delle mie assunzioni in materia. Tento di spiegare di seguito le mie ragioni.
E' una forzatura logica il considerare lo scambio come una forma di produzione. Lo scambio è un'azione economica di tipo strumentale, ed è al servizio sia del consumo che della produzione. E' in sostanza lo strumento che permette l'interazione tra le azioni che i diversi agenti economici pongono in essere nel perseguimento delle loro preferenze; e quest'ultime possono essere indifferentemente orientate sia al consumo che alla produzione. Non si può considerare lo scambio solo come fattore di produzione; se lo si considera tale, si deve poi considerarlo anche come fattore di consumo. Insomma, lo scambio è sicuramente un fattore di produzione, ma non solo di produzione. Si può anche accettare di porre l’accento sull’uno, ma non si può obliare completamente l’altro. Lo scambio permea di sé anche il consumo. Esso è il come, il mezzo con cui sia la produzione che il consumo concretamente avvengono; una funzione strumentale irrinunciabile per entrambe le attività economiche fondamentali. La tesi dei due Autori secondo cui la Moneta sarebbe configurabile come bene di consumo solo quando non verrebbe usata come tale, come denaro insomma, non è condivisibile. Dal punto di vista dell’individualità agente, il denaro usato per acquistare beni di consumo viene consumato.
E' su queste basi logiche che si fonda l'ineccepibilità della classificazione di Mises della Moneta come bene sui generis, peculiare rispetto ad ogni altro.
Detto questo, ritengo comunque che la definizione misesiana abbia bisogno di sviluppi più innovativi di quelli dati finora dai suoi successori. Il respingere le conclusioni di Barnett e Block non significa relegare il bene che presiede a quella funzione essenziale (lo scambio) in un limbo di neutralità, di indifferenza rispetto all’avanzamento economico. Sostenere ciò significherebbe sostenere che il superamento del baratto sia stato ininfluente per lo sviluppo economico.
Cominciamo col chiarire una cosa: non esistono beni capitali e beni di consumo in sé, beni che posseggano quelle qualificazioni ontologicamente. Esistono i beni!
La loro qualificazione in un senso o nell'altro è operata dall'azione umana. Lo stesso bene può avere funzioni diverse, in tempi successivi, a seconda delle preferenze dell'agente economico. Una patata può essere consumata, o può venire impiegata come bene capitale per la produzione di altre patate. Una casa può essere usata come rifugio, e quindi consumata, ma può allo stesso tempo essere impiegata come luogo di produzione. Oppure, trasformarsi in bene capitale successivamente tramite la messa in opera di un albergo, o di una locanda. Lo stesso oro può essere consumato da mia moglie, che si orna di un mio regalo, o può essere un bene capitale nelle mani di un orafo che lo usa per produrre gioielli. L'oro ha però una funzione ulteriore, storicamente esclusiva insieme all'argento (altri metalli sono intervenuti sporadicamente nella funzione), quando gli agenti economici lo usano come Moneta. E cioè, lo usano come bene di scambio, come il bene strumentale per eccellenza. Ma anche questa funzione, particolarissima rispetto alle altre due ed analiticamente ben distinta, deriva dalla volontà particolare dell'agente economico. Pertanto, la qualificazione di un bene come bene capitale o di consumo o di scambio è sempre una qualificazione derivata dalle scelte, o preferenze, dell'azione umana.
Acquistare il bene Moneta (che sia l'oro lo ha stabilito il mercato, ossia l'azione umana sublimata) può essere considerato come un investimento? La risposta è: senza alcuna ombra di dubbio!
Abbiamo detto che tale bene è suscettibile di una funzione ulteriore, particolarissima ed essenziale, quando viene usato come bene di scambio: in tale funzione, assume il nome di Moneta, ed è la linfa vitale del soddisfacimento dei bisogni umani!
Essa è la rappresentazione, universalmente comprensibile, del benessere. Ognuno può tramutare tutte le sue risorse in tale bene, e renderle quantitativamente comprensibili a chiunque, e ragionevolmente trasformarle in altri beni e risorse dopo decenni senza che una briciola del valore che aveva all'inizio sia stata persa.
E' la cartina di tornasole, la pietra angolare, il termine di paragone a cui deve riferirsi ogni altro bene, esistente o in fieri, ed ogni agente economico nel suo calcolo. Essa è l'unico bene esistente capace di trasformarsi all'istante in bene capitale o bene di consumo, senza passaggi o fatiche ulteriori, al semplice manifestarsi della preferenza di chi la possiede.
Tutte queste qualità, peculiari ed esclusive, le conferiscono un valore ulteriore, che nessun altro bene potrà mai avere. E chi scelga di allocare le sue risorse risparmiate acquistando tale bene, le sta investendo. La cosa non può essere revocata in dubbio!
Egli sta investendo in quelle qualità del bene, che ho elencato sopra, e che lo rendono desiderabilissimo quasi sempre. Qualità che, per esempio, gli permettono di poter differire la sua scelta tra le due forme dell'azione economica, produzione e consumo, senza che il decorso del tempo gli rechi alcun nocumento (a meno di eventi eccezionali, tipo la conquista spagnola delle Americhe o l’inizio dello sfruttamento romano dei giacimenti d’argento spagnoli). Già di per sé, non sarebbe poco. Ma nel frattempo può pure mettere quel bene a disposizione di altri che quella scelta hanno già operato, ricevendone un corrispettivo.
Del resto non si tratta solo della Moneta. Ogni consumo posticipato è risparmio. E quindi investimento!
Parlare di preferenza di liquidità in contrapposizione a preferenza temporale è concettualmente inconcludente. Un equivoco, in sostanza. La cosiddetta preferenza di liquidità non ha una dignità concettuale autonoma. Si tratta sempre di preferenze temporali. Una rinuncia ad un consumo immediato di una parte del reddito personale, in cambio della possibilità (l’investimento può andar male) di consumare meglio e di più in futuro.
La questione è oltremodo semplice: o si ritiene che il risparmio equivale ad investimento, oppure non lo si ritiene equivalente. In quest’ultimo caso, in sostanza , si sta affermando che il risparmio è investimento solo quando non sia allocato in Moneta, nel qual caso si trasformerebbe nella mitica liquidità (con incombente dannazione Keynesiana). Io trovo tale conclusione altamente opinabile, in quanto una liquidità che non sia al tempo stesso risparmio (una parte del risparmio, allocata in una forma/bene determinata) riesco ad ipotizzarla solo in un regime monetario non redimibile, e cioè in un regime dove il denaro viene alla luce tramite un processo arbitrario politico-burocratico, non attraverso un legittimo processo economico. Del resto, chi ritiene di sposare tale conclusione dovrebbe quantomeno avere la compiacenza di spiegare cosa sarebbe allora questa liquidità, per quale motivo essa cessa di essere risparmio quando l’agente economico decide di acquistare il bene (avente anche funzione di) Moneta.
I fattori di produzione, quelli potenzialmente in grado di garantire consumi futuri maggiori e migliori, non sono definibili a priori. Non sono dati! Si qualificano come tali solo grazie all’azione dell’agente economico, all’uso cui vengono destinati dalle preferenze e dai calcoli di quest’ultimo.
L’unica conclusione logicamente possibile è pertanto che ogni allocazione di risorse risparmiate è un investimento. Ed investendo tali risorse nel bene Moneta (e qui sono debitore di Enrico M. Di Francia per la suggestione), l’agente economico sta implicitamente, e magari inconsciamente, investendo nello sviluppo economico. E’ infatti solo l’avverarsi di tale sviluppo che gli garantirà un reddito maggiore futuro tramite maggiori beni prodotti ed acquistabili dalla quantità di risorse che lui ha cristallizzato in Moneta. Ma un reddito maggiore, ulteriore, può essergli garantito anche da un buon prezzo riconosciutogli per l’uso della sua Moneta da qualche altro agente che voglia usarla nell’immediato per perseguire le sue assunzioni e preferenze. E tale reddito ulteriore potrebbe perfino configurarsi nella possibilità che l’allocazione temporanea delle proprie risorse in Moneta dà all’individuo di ponderare al meglio le sue scelte, senza patemi d’animo relativi alla conservazione, anche in termini di valore, delle stesse, nel lasso temporale in cui la decisione non è presa.
Abbiamo sin qui cercato di chiarire i motivi per i quali consideriamo l'allocazione di risorse risparmiate in Moneta come investimento a tutti gli effetti, e perché tale conclusione non comporta in alcun modo la definizione della Moneta stessa come bene capitale.
Dal ragionamento esplicitato però, vanno a mio avviso ricavate delle conseguenze. E qui si entra in un territorio minato, e vanno usate mille cautele, perché si tratta di innovare, sia pur marginalmente, ad una posizione misesiana, che è poi in sostanza l'avallo di un assunto di Adam Smith: "Da questo punto di vista, quei beni che sono usati come denaro sono invero quello che Adam Smith definiva loro, “dead stock”, che……. nulla producono.”
Premetto che io contesto a cuor leggero chiunque, ma quando si tratta di Mises, per il quale ho una vera e propria venerazione, tendo sempre a considerare che ho torto io, quando mi capita di trovare qualcosa scritto da lui che non condivido (quasi mai). Ma ritengo in questo caso di avere delle buone ragioni, che mi fanno ben sperare di poter giungere a conclusioni non incompatibili con il suo insegnamento. Incominciamo col porre i paletti, visto che non ho alcuna intenzione di morire monetarista. Incrementare la quantità di Moneta nel sistema economico non significa aumentare la ricchezza ed il benessere degli agenti che condividono quel sistema.
Un'altra cosa. Il ragionamento è applicabile solo al bene Moneta, così come originato dal Mercato. E cioè, un bene prodotto strappandolo a costo di fatica, sudore e sangue dalle viscere della Terra. Tutta la costruzione logica si basa, a pena di crollo, sul fatto che la produzione del bene usato come Moneta avvenga tramite un processo economico, che non differisce in nulla da ogni altro processo economico teso alla produzione di beni. E non si capisce allora per quale arcano il frutto di quel processo economico debba essere considerato inadatto all’ampliamento di ricchezza nel sistema, alla stregua di qualsiasi altro bene.
E’ possibile sostenere che l'immissione sul mercato di nuove quantità di questo bene sia assolutamente ininfluente per il benessere degli agenti economici? Naturalmente, ripeto, non si vuole affermare che quell'immissione di per sé sia idonea ad aumentare la ricchezza nel sistema. Ma affermare che la produzione di questo bene, la cui importanza peculiare ho cercato di dimostrare, non possa arrecare alcun beneficio, significa a mio parere andare oltre il dovuto.
L'emersione della Moneta come bene assolvente alla funzione essenziale dello scambio economico ha avuto un'importanza fondamentale per lo sviluppo economico, e per l'aumento e la diffusione del benessere e della ricchezza. Questo alla luce delle qualità illustrate in precedenza, come bene strumentale per eccellenza. E tali qualità fanno in modo che esso non possa essere considerato bene improduttivo, “a dead stock”.
Se vogliamo completare il processo logico fino in fondo, bisogna concludere che nessun bene di per sé aumenta la ricchezza del sistema. E' l'uso cui l'azione umana lo destina a materializzare quell'aumento di ricchezza. Così come è essa a determinarne la qualifica di bene di consumo, bene capitale o Moneta.
Ogni bene e risorsa economica producono ricchezza solo se impiegati nel modo appropriato, cioè solo se guidati da assunzioni corrette dell'agente economico nel determinare le proprie preferenze e quelle altrui. Senza l'azione umana, bene direttivo per eccellenza, ogni bene è improduttivo.
L'importanza dello scambio nel processo economico, in ogni caso, comanda che al bene che presiede tale funzione (e la rende possibile universalmente in termini omogenei) sia riconosciuto un valore di arricchimento (potenziale) non diverso dagli altri beni di produzione, e cioè proporzionale al suo incremento nel sistema e subordinatamente ad un uso adeguato da parte dell'azione umana.
L'assunzione di Gary North (e di molti altri), secondo cui "le fonti del profitto economico dei proprietari delle miniere d’oro sono le perdite economiche sostenute dagli ultimi prenditori del nuovo oro prodotto”, è assolutamente fallace. L'unico motivo che mi viene in mente per cui l'ultimo recipiente della nuova Moneta debba sostenere delle perdite economiche è l'aumento dei prezzi che tale incremento del bene Moneta nel sistema abbia prodotto nel frattempo. Ebbene, non è necessariamente così. Se quella nuova Moneta è stata impiegata in un modo adeguato, avrà contribuito al sorgere di nuove fabbriche, produttrici di nuovi beni. E tali nuovi beni compenseranno la nuova Moneta.
Il profitto dei produttori d’oro non è distinguibile concettualmente da ogni altro profitto ricavato da ogni altro produttore di beni. Non è un profitto arbitrario, e quindi per definizione non toglie niente a nessuno. Qualsiasi profitto derivante dalla produzione di un bene non può mai essere considerato incamerato a danno di qualcuno. Altrimenti qualsiasi produttore di beni starebbe togliendo qualcosa agli “ultimi prenditori”. E questo perché coloro che producono oro, lo fanno tramite un processo che economicamente è perfettamente uguale a quello di produzione di qualsiasi altro bene. L’immissione del bene (che funziona anche da) Moneta nel mercato non determina di per sé alcun processo inflativo sui prezzi; tale processo inflativo sarà determinato solo dal suo uso inadeguato o da un’immissione abnorme, ed in questo non si distingue da qualunque altro bene. Allo stesso modo non determina di per sé alcun aumento di ricchezza. Le conseguenze vengono determinate dall’azione umana su quel bene, così come per qualsiasi altro bene.
Ci sono persone che quella nuova Moneta non la prenderanno mai, perché non producono niente di valore. Ma questo non è certo colpa del produttore del bene. Solo l’abominio marxista ed i suoi contorcimenti storici potrebbero spingersi a sostenere una cosa del genere. In un sistema economico, c’è sempre qualcuno che prospera più di altri, ma ciò è perfettamente legittimo, anzi naturale. Prospera di più perché produce di più o meglio. Ed i suoi profitti non sono dunque a danno di nessuno. Il produttore non sta beneficiando di alcun privilegio, né sta commettendo alcun arbitrio. Sta semplicemente facendo il suo lavoro.
Né è possibile distinguere l’immissione nel mercato come Moneta; i produttori d’oro immettono nel mercato un bene, come qualsiasi altro produttore. Sarà poi l’agente economico a decidere la funzione di quel bene, come di qualsiasi altro bene. L’unica differenza è che in questo caso l’agente ha a disposizione un’ulteriore funzione cui poterlo destinare, e la cosa prova fin troppo per la tesi che sto sostenendo.
E si badi bene, non mi passa nemmeno per la testa di contestare Mises nell’affermazione che qualsiasi quantità di Moneta è sufficiente a fare funzionare in maniera adeguata un sistema economico. Ma tale affermazione non è certo in contrasto con quella che sostiene che un incremento della produzione di questo bene particolare, qualora avvenga tramite un processo produttivo simile a quello di ogni altro bene, sia potenzialmente in grado di apportare benessere ulteriore all’economia, quantomeno alla pari con ogni altro bene economico prodotto. Non di per sé, ripeto, ma in seguito all’azione umana, e purché tale azione si basi su presupposti, assunzioni e calcoli economici corretti.
Se lo scambio è fattore essenziale del processo produttivo (ma non solo di quello produttivo, come vorrebbero Barnett e Block, anche di quello di consumo), è illogico allora affermare una neutralità del bene che lo sostanzia ai fini dello sviluppo economico. Tale bene entra a far parte a pieno titolo dei processi produttivi, della struttura produttiva e del Capitale, non solo come oro nelle mani dell’orafo, ma anche nella sua funzione di bene di scambio. E quindi condivide con gli altri fattori di produzione la capacità di generare arricchimento economico.
Non consumando, io metto a disposizione in ogni caso beni e risorse per un uso produttivo, a prescindere dal fatto che poi tali beni e risorse siano effettivamente usate a quello scopo adeguatamente. La non adeguatezza si configurerebbe infatti anche nel caso le suddette risorse venissero impiegate per costruire una fabbrica che andasse a produrre beni non desiderati o inutili. Non c’è differenza! Risparmiando, esercitando sempre e solo una preferenza temporale, io investo! Il risultato dell’investimento, come le sue modalità, rappresentano aspetti secondari, e comunque ininfluenti al fine della qualificazione logica del mio agire.
Ho iniziato questo scritto rigettando la tesi che qualificava la Moneta come bene capitale, ma ho cercato di dimostrare che tale qualificazione andava rigettata perché ne sminuiva l'importanza. La tesi dei due Autori può essere condivisa solo se l’espressione “forma di produzione” viene ritenuta equivalente a “fattore di produzione”. In tal caso, l’intuizione è corretta ed è importantissima. Lo scambio è senz’altro il più importante dei fattori di produzione. Non è però condivisibile limitarne l’importanza alla sola produzione. Lo scambio riveste un’importanza non minore ai fini del consumo. Cosa potremmo consumare senza poter scambiare?
Ogni azione non è produzione o consumo. Piuttosto, ogni azione viene fatta per produrre o consumare. Ebbene, in economia senza lo scambio non sarebbe possibile nessuna delle due cose. Solo con lo scambio nasce un sistema economico! Ed allora, nell’ambito di una teoria della qualificazione teleologica dei beni economici, il bene che presiede a tale funzione essenziale merita senz’altro una categoria sui generis per comprenderlo in quella funzione.
E sarebbe davvero bizzarro se l'aumento della produzione di tale bene non dovesse considerarsi potenzialmente accrescitivo del benessere comune quantomeno alla stessa stregua ed alle stesse condizioni dell’aumento di produzione di ogni altro bene.
Bisogna porre l’accento sul fatto che il processo che porta ad un aumento del bene Moneta nel sistema economico è un processo economico a tutti gli effetti. Esso non differisce in nulla dai processi che portano alla produzione degli altri beni. E come gli altri beni, esso è suscettibile di essere consumato o usato come fattore di produzione. Tale bene però, unico tra tutti i beni economici, è adatto ad un’ulteriore qualificazione da parte dell’azione umana: quella di mezzo di scambio, universale ed omogeneo. E può entrare a far parte dei processi di produzione o di consumo in questa ulteriore funzione, può qualificarsi come fattore di produzione o di consumo in questa ulteriore accezione. Racchiude quindi in sé una qualità in più rispetto ad ogni altro bene, possiede una utilità economica maggiore.
Anche solo a volersi limitare a quest’ultimo aspetto, quello di mezzo di scambio, è arduo sostenere che la Moneta sia da considerarsi bene morto, improduttivo. E’ chiaro che il soddisfacimento dei bisogni umani avviene attraverso la produzione di qualcosa che, consumata, soddisfi quei bisogni. Produzione e consumo sono i concetti fondamentali dell’attività economica. Ma è altrettanto chiaro che sia la produzione sia il consumo risulterebbero impossibili senza la funzione essenziale dello scambio. Ognuno sarebbe costretto a consumare esclusivamente quello che riesce a produrre lui stesso. In altre parole, senza lo scambio non si potrebbe neanche parlare di civiltà umana. Naturalmente, la Moneta non è lo scambio. Lo scambio preesisteva alla Moneta. Essa però lo ha reso fattibile universalmente, ed in termini omogenei, facilitandolo all’ennesima potenza, e facilitando e migliorando enormemente in tal modo produzione e consumo. Il non dover più paragonare i beni tra loro ogni volta, ogni singolo bene ogni singola volta, ha accelerato lo sviluppo economico e la creazione di ricchezza in maniera esponenziale.
E come si può allora negare al bene che ha reso possibile tutto ciò persino la dignità riconosciuta ad ogni altro bene?
| inviato da il 14/4/2006 alle 18:35 | |
14 aprile 2006
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| inviato da il 14/4/2006 alle 14:36 | |
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